27/01/12

'Il capitalismo ha un futuro?' Il Financial Times fa a tutti le domande sbagliate per evitare i problemi reali.

Su Economonitor un interessante articolo di Philip Pilkington : ripercorrendo da un particolare punto di vista la grande depressione e il keynesismo, ne deduce che al fondo di tutto  c'è un problema di democrazia e di politica, più che di economia.

di Philip Pilkington

Il Financial Times ha recentemente pubblicato una serie sul futuro del capitalismo. Il FT è di solito una pubblicazione eccellente - ma la serie risulta gravemente carente.

La mancanza dipende dalle domande poste. Durante la Grande Depressione - anzi, anche dopo la prima guerra mondiale - c'è stata una seria alternativa al capitalismo. Durante gli anni della depressione l'economia Sovietica, sotto il pugno di ferro di Stalin, si muoveva in fretta, anche se brutalmente, verso lo sviluppo e la crescita.  Se le forze sociali avessero cominciato a muoversi in questa direzione, in Occidente le élites disponevano di un 'pulsante d'allarme' da premere. Potevano, se volevano, muoversi verso l'istituzione di un sistema fascista. Le politiche economiche Hitleriane - un keynesismo da tempo di pace mai, né prima né dopo, raggiunto nel mondo occidentale - sono state un grande successo e
dal 1936 hanno in gran parte scongiurato la depressione tedesca.

Per quanto sgradevole possa essere stato per molti, certamente incombeva sullo sfondo negli anni '30 - e se lo spettro del comunismo fosse veramente apparso,  l'elite  probabilmente a malincuore si sarebbe mossa in questa direzione, piuttosto che vedersi espropriata (e forse non così a malincuore, dato che Hitler aveva un bel po' di fans nell'alta classe Britannica prima del 1939). Figure come Henry Ford negli Stati Uniti erano acutamente consapevoli di ciò che si sarebbe potuto fare per mantenere l'ordine in caso di grandi tensioni sociali.

Sì, era un tempo molto particolare, di sfide reali e apparentemente valide al capitalismo. Tali sfide non esistono oggi, ed è questo che spiega questo miserevole guardarsi  l'ombelico al FT.

Vari commentatori scrivono pezzi che sono ... beh ... in gran parte irrilevanti. Ci assicurano che il capitalismo sopravviverà perché non ci sono alternative - grazie, FT, per le informazioni, magari domani potresti ricordare a tutti noi di che colore è il cielo. Alcuni dei commentatori più 'taglienti' addirittura si genuflettono davanti all'altare della scuola Austriaca  e del libertarismo, sostenendo che i salvataggi  hanno fatto loro desiderare una
'epurazione' del sistema,  più moralmente attraente.
La serie sul FT è così stagnante e priva di dinamismo, come è diventato negli ultimi anni il sistema descritto. Quello che il FT dovrebbe invece chiedersi è: realisticamente dove è diretto il sistema occidentale capitalista? Questa è la domanda importante a cui si può rispondere.

Cominciamo con un pezzo di Martin Wolf, tirato fuori dagli archivi ed aggiunto alla serie. E' stato scritto da Wolf   nel 2009, e il suo ottimismo keynesiano è tanto interessante  quanto deprimente, dati gli eventi recenti.

"Possiamo anche immaginare che gli Stati Uniti guideranno la ripresa. Gli Stati Uniti sono ancora il paese più keynesiano del mondo avanzato."

Wolf calcolava che il tiepido keynesismo che era all'ordine del giorno negli Stati Uniti al momento, sarebbe stato l'inizio di qualcosa di nuovo. Pensava che questo avrebbe generato uno slancio che avrebbe tirato il mondo fuori dalla recessione / depressione e verso un più prospero, forse anche più socialdemocratico. Le sue preoccupazioni erano le solite.

"Purtroppo, ci sono almeno tre grandi domande a cui non possiamo rispondere. Fino a che punto gli  eccezionali livelli di indebitamento e di calo del patrimonio netto genereranno un aumento sostenuto del risparmio delle famiglie rispetto all'alta spesa dei consumatori di un tempo? Quanto tempo può continuare l'attuale deficit di bilancio prima che i mercati chiedano una maggiore compensazione per il rischio? Può la banca centrale costruire un'uscita non-inflazionistica dalle politiche non convenzionali?"

Sulla domanda numero due, Wolf avrebbe dovuto saper rispondere. Tutto quello che doveva fare era dare un'occhiata al  massiccio debito-PIL del Giappone e misurare i loro rendimenti obbligazionari. Poi,  avrebbe potuto mettere in correlazione il risparmio interno del Giappone col crescente debito-PIL, e avrebbe concluso che era il deficit a guidare il risparmio - non  i risparmi che hanno 'permesso' il deficit. Ogni disavanzo pubblico, dopo tutto, è un asset privato – il modello degli equilibri settoriali di Wolf avrebbe potuto dirgli tutto questo.

La domanda numero tre appare ingenuamente ottimista. Solo la prima domanda  mostra qualcosa di simile ad una preoccupazione vera.

 
Ciò che Wolf e altri keynesiani entusiasti si sono persi nel 2009 è stato ... beh ... la storia. C'è un mito che gira nei circoli keynesiani e progressisti che fa più o meno così: “Nel novembre del 1932, dopo tre anni di fallite politiche di austerità del Presidente Herbert Hoover, Franklin Delano Roosevelt fu eletto. FDR aumentò la spesa pubblica,  inaugurando l'era del New Deal dal Big Government, e creando il welfare state Americano. Questi sviluppi diedero luogo a un nuovo tipo di economia mista che doveva dimostrarsi immune da depressioni fino a quando è stata messa sotto pressione negli anni '70 grazie al deficit spending del Vietnam, ed è stata smontata da Reagan e dalla nefasta industria finanziaria a partire dal 1980."

Bella storia. Peccato che non è neanche lontanamente vicina alla verità. Se si guarda alla storia reale si scopre che le politiche anti-depressione di FDR sono state un palliativo, al meglio. Roosevelt era terrorizzato di squilibrare troppo il bilancio, e ostile alle reali idee di Keynes. Infatti, dopo l'incontro con FDR, Keynes commentò che aveva sperato che l'uomo fosse più esperto in economia. Nel 1937 Franklin Delano Roosevelt, impaurito per lo squilibrio del bilancio, restrinse la spesa -  portando, prevedibilmente, a una massiccia recessione.

I programmi di lavori pubblici di FDR sono stati eccellenti, ben oltre tutto ciò che un Presidente degli Stati Uniti sembra essere in grado di fare oggi. Egli subì un sacco di critiche da parte della comunità del business per l'avvio di questi programmi. Ma non spinse il deficit abbastanza avanti da tirar fuori l'economia dalla recessione. Basta guardare ai disavanzi effettivi gestiti dall'amministrazione Roosevelt nel 1930 - erano inferiori ai deficit di oggi!
 
In verità - e come il lettore accorto avrà già visto chiaramente nel grafico sopra - fu la seconda guerra mondiale che pose fine alla depressione. La seconda guerra mondiale ha dato ai politici il coraggio di squilibrare il bilancio a sufficienza per ripristinare l'economia. Ha anche dato loro lo spazio per riorganizzare il sistema di tassazione in un modo che lo ha reso molto più sostenibile. Se qualcuno obiettava, beh, si opponeva allo sforzo bellico, era anti-patriottico, e quindi escluso dal dibattito.

Quali lezioni dovrebbero essere imparate? Alcune molto semplici. Il capitalismo democratico è profondamente disfunzionale, un sistema forse anche tendente al suicidio. Nei tempi buoni i capitalisti e i finanzieri guadagnano sempre più potere di influenza sui politici e, dopo una breve ritirata quando si verifica la crisi, continuano a mantenere questa influenza quando si fanno sentire le pressioni deflazionistiche.   Nel frattempo, i politici si convincono che il bilancio del governo è  come un bilancio familiare - e in questo sono supportati da numerosi economisti. Questo porta ad una sorta di situazione di 'tempesta perfetta', dove il deficit di bilancio diventa il tema principale della giornata e tutto il resto viene ignorato, compresa l'economia in declino.

La business class, insieme ai funzionari  eletti che sono diventati i loro rappresentanti, si sentono minacciati da un qualsiasi intervento del governo  aggiuntivo. Vedono in questo un attacco al loro potere. Può sembrare paradossale, nel caso di funzionari di governo. Sicuramente, dopo tutto,
con un maggiore  intervento pubblico dovrebbero aumentare il loro potere. In teoria sì, in pratica, no. Questi funzionari sono talmente invischiati nella ragnatela degli affari e intenti a far soldi che qualsiasi aumento dell'intervento del governo sembra loro una minaccia. Come  un giornalista embedded con le truppe in una zona di guerra,  che diventa così dipendente dalle truppe per la sua sussistenza, che tende a perdere tutte le distanze da ciò che sta accadendo intorno a sè, e diventa uno della banda, per così dire. Idem per i politici.

Il grande economista Polacco Michal Kalecki ha notato per primo questa dinamica e giustamente ha predetto che avrebbe avuto conseguenze enormi per qualsiasi economia mista. Nel suo  classico  The Political Consequences of Full Employment ha scritto:

Ci sono, comunque, indicazioni ancora più dirette che è in gioco qui una questione politica di prima classe. Nella grande depressione degli anni '30, le grandi imprese si opposero fermamente agli esperimenti per aumentare l'occupazione con la spesa pubblica in tutti i paesi, tranne che nella Germania nazista. Questo era chiaramente visibile negli Stati Uniti (opposizione al New Deal), in Francia (l'esperimento Blum), e nella Germania prima di Hitler. L'atteggiamento non è facile da spiegare. Chiaramente, maggiore produzione e occupazione vanno a beneficio non solo dei lavoratori, ma anche degli imprenditori, perché aumentano i loro profitti. E la politica di piena occupazione di cui sopra non incide sui profitti, perché non comporta alcuna imposizione fiscale aggiuntiva. Gli imprenditori in crisi desiderano un boom; perché non hanno accettato volentieri il boom sintetico che il governo è in grado di offrire loro? E' una domanda  difficile e affascinante.

Kalecki ha giustamente osservato che la spesa finanziata in deficit era nell'interesse del business. Soprattutto in una depressione, quando la produzione e, quindi,  i profitti erano così bassi, è solo il governo che può riportare il capitalismo alla prosperità - e tuttavia, i capitalisti sono molto ostili a tale azione, preferendo sguazzare in una economia stagnante, piuttosto che accettare l'assistenza. Dal punto di vista economico - che presuppone che i businessmen curino il profitto sopra ogni altra cosa - questo ha poco senso. Ma per Kalecki era perfettamente logico.

In primo luogo egli nota come questa avversione si manifesta – i lettori di oggi saranno impressionati di conoscere ciò che scriveva Kalecki nel 1943.

Ogni ampliamento delle attività dello Stato è guardato con sospetto da parte delle imprese, ma la creazione di posti di lavoro con la spesa pubblica ha un aspetto particolare che rende l'opposizione particolarmente intensa. Sotto un sistema di laissez-faire il livello dell'occupazione dipende in larga misura dalla cosiddetta “fiducia”. Se questa si deteriora, diminuiscono gli investimenti privati, il che si traduce in una caduta della produzione e dell'occupazione (sia direttamente che attraverso l'effetto secondario della caduta dei redditi su consumi e investimenti). Questo dà ai capitalisti un potente controllo indiretto sulla politica del governo: tutto ciò che può incidere sulla fiducia deve essere accuratamente evitato, perché causerebbe una crisi economica. Ma una volta che il governo viene a scoprire il trucco di aumentare l'occupazione attraverso la sua spesa, questo potente dispositivo di controllo perde la sua efficacia. Quindi il deficit di bilancio necessario per effettuare l'intervento del governo deve essere considerato come pericoloso. La funzione sociale della dottrina della 'finanza sana' è quella di rendere il livello di occupazione dipendente dallo stato di fiducia.

Kalecki si sposta da questa posizione altamente illogica verso idee più ragionevoli che possono circolare nella business class:
 
L'avversione dei dirigenti d'azienda per una politica di spesa pubblica diventa ancora più acuta quando vengono a considerare gli oggetti su cui il denaro verrebbe speso: gli investimenti pubblici e i sussidi al consumo di massa.

I principi economici di un intervento del governo richiedono che gli investimenti pubblici dovrebbero essere limitati agli oggetti che non sono in concorrenza con le imprese private (ad esempio ospedali, scuole, autostrade). In caso contrario, la redditività degli investimenti privati potrebbe essere compromessa, e l'effetto positivo degli investimenti pubblici sul lavoro compensato dall'effetto negativo della diminuzione degli investimenti privati.
E allora Kalecki suggerisce che la classe imprenditoriale potrebbe quindi favorire  i sussidi diretti ai consumi. Ma non è così.

I sussidi ai consumi di massa incontrano una opposizione molto più violenta da parte di questi esperti, che gli investimenti pubblici. Perché qui è in gioco un principio morale della massima importanza. I fondamenti dell'etica capitalistica richiedono che 'si deve guadagnare il pane con il sudore' - a meno che non vi capiti di avere mezzi privati.

Sembra senza senso. Ma ciò che ci sta dietro  è tutt'altro. Perché Kalecki passa poi a sostenere che un tale intervento rende la business class consapevole che il suo potere potrebbe essere eroso. In primo luogo, un regime in cui il governo potrebbe assumere persone per alleviare la disoccupazione minaccia la principale misura disciplinare dell'uomo d'affari: la borsa. Questo potrebbe portare ad un'erosione del suo potere sociale.

Sopra ogni altra cosa, la classe d'affari - come ogni classe - è interessata non ai profitti, ma al  potere, i primi sono semplicemente un mezzo per il secondo. Sentono che il loro potere deriva dalla loro capacità di investire,  perché l'investimento guida l'economia capitalista. Meno loro investono, e più lo stato investe, meno potere sociale avranno. Chiaramente questa è una idea perfettamente logica e coerente, anzi, è quasi ovvia nella sua verità.

Senza una grande guerra - e non stiamo parlando di qualche piccola oziosa avventura in Iran - non esiste un meccanismo reale che allevi le paure della business class a questo proposito. Essi preferirebbero di gran lunga sedersi nell'ozio a non  far niente piuttosto che cedere parte del loro potere. E il feticcio del pareggio di bilancio  serve bene per lenire i dubbi del politico che pensa che qualcosa debba essere fatto, nonostante tale azione potenzialmente offenda il suo compagno di merenda. E così finiamo nel nostro pantano attuale.

Il capitalismo democratico, molto semplicemente, è un sistema  auto-distruttivo. Nella crisi attuale la classe imprenditoriale ha rinvigorito i suoi profitti attraverso imbrogli finanziari. Ma, come ho già sostenuto in questo sito, questo è avvenuto attraverso una bolla delle commodities, e probabilmente non durerà a lungo. Eppure, anche nel caso che si giunga a una presa di beneficio, sappiamo dalla storia che la business class  probabilmente preferirà accettare profitti cronicamente bassi piuttosto che accettare che sia il governo a muoversi sul suo territorio.

Così è probabile che l'Occidente si stia dirigendo verso un lungo periodo di stagnazione e declino. Questo è dovuto al capitalismo? In un certo senso sì, ma metterla in questi termini è troppo astratto. Questo ha soprattutto a che fare con le nostre strutture politiche e la quantità di potere che la business class esercita nelle democrazie moderne. E' davvero un problema, non del capitalismo, ma della democrazia capitalista.

Con questo si può dire che dei sistemi non-democratici sono preferibili? Certo che no. Chiunque ceda la sua libertà per una busta paga è riprovevole. Alcuni diranno che viviamo già in un sistema non democratico. Io risponderei: tenete la lingua a freno per paura che questo si avveri, e tutte le vostre fantasie diventino una terrificante realtà.

Ma anche al di là di tali giudizi morali, in realtà l'idea che un qualche altro sistema di governance economica potrebbe arrivare a sostituire questo nostro, sembra improbabile. Di nuovo, siamo al gennaio 2012, non al marzo 1933. Abbiamo un sistema di welfare che permette alle persone, anche nei più insensibili stati occidentali, di non morire di fame. In verità, le strutture di potere si sono in gran parte solidificate. Anche un'altra crisi finanziaria e un deficit cronico di redditività difficilmente le  indebolirebbero - per non parlare di farle cadere.

Questi sono i problemi reali che abbiamo di fronte, mentre ci muoviamo verso il futuro. E sono questi i problemi che le persone che tentano di dare un volto più funzionale al sistema economico e politico, con coraggio, affrontano ogni giorno. Ma questi sono problemi che il FT - con i suoi lettori illuminati della business class liberale - non poteva sollevare. Altrimenti avrebbe potuto vedere un suo declino di redditività molto  prima della prossima crisi finanziaria. Forse allora, piuttosto che  sbandierare e atteggiarsi, il FT avrebbe fatto meglio a lasciar perdere. Forse dovrebbero attenersi a quello in cui sono bravi - cioè, l'analisi attuale - e mettere via i loro pompon.

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